Testimonianze


Marco Besana

Associazione ¡NO MÁS!
«Ho conosciuto Vittorio nel 2006, davanti a una birra, nell’unico bar del mio paese. 
Ci eravamo dati appuntamento via e-mail per incontrarci faccia a faccia dopo il suo rientro da Israele. 
Non ero riuscito a contattarlo telefonicamente, ma non appena gli avevo scritto la sua risposta era stata immediata. Mi ringraziava per aver scritto di lui, della sua storia; per aver contribuito a far circolare il messaggio di pace che stava cercando di trasmettere attraverso i suoi viaggi, attraverso le parole scritte sul suo ormai famosissimo blog. 
Era stato già fin troppo generoso con me; in fin dei conti non avevo fatto altro che seguire la sua storia di prigioniero innocente, di simbolo di una pace scomoda e seccante. 
In effetti in quell’occasione era stato lui a conoscere me. 
Io lo conoscevo già. 
Era stata sua madre, uno dei sindaci più capaci che abbia mai incontrato oltre a una delle persone che stimo maggiormente fra quelle che conosco, a parlarmi di lui, del suo viaggio diretto in Palestina per prendere parte ad una conferenza sulla Non-Violenza, dei suoi sogni di pace così simili ai miei. 
Mi aveva chiamato un pomeriggio di dicembre dicendomi solo un pugno di parole: «Vittorio è stato arrestato. Ora si trova nelle carceri israeliane.»
Per tutto il mese di dicembre avevo seguito la vicenda di Vittorio, avevo cercato di tenere sempre alta l’attenzione su di lui, spesso scontrandomi con le logiche dei giornali locali poco inclini ad approfondire notizie già lanciate. 
Una volta rientrato in Italia, decisi di volerlo incontrare di persona. 
Non avevo mai visto Vittorio, se non sulle sfuocate fotografie che circolavano si internet, ma non appena lo vidi arrivare lo riconobbi subito. 
Fumava la pipa e in testa portava una sorta di basco con alcune spille. Riconobbi le sue braccia forti piene di tatuaggi e quell’aria di chi avrebbe voluto essere lontano da qui. 
Cominciammo a parlare, ma dopo le prime domande che mi ero preparato, decisi di abbandonare il block notes e stare semplicemente ad ascoltare. Un fiume di parole, intervallate da qualche sorso di birra e da qualche sorriso, mi inondò per un intero pomeriggio. 
Parlammo di pace, di Israele, di tagli ancora visibili sulle sue braccia, di viaggi, di Garcia Lorca, di Africa e di Medio Oriente. Difficile fare un resoconto di tutto quello che mi raccontò. 
Impossibile cercare di riassumere ora tutte le sensazioni che quell’incontro mi provocò. 
Dirò solo che i suoi racconti su guerrilla radio mi avevano colpito ed affascinato a tal punto da farmi temere di aver caricato eccessivamente la figura di Vittorio, prima di quell’incontro. 
Quando lo conobbi non solo non trovai scollature fra chi aveva scritto e l’uomo che avevo davanti, ma capii che Vittorio era molto di più di quella persona che già avevo reputato unica prima di incontrare. 
Niente è la sete di giustizia che traspare dalle sue parole paragonata a quella che brilla nei suoi occhi, a quella che la sua voce pacata riesce a far emergere. 
Una persona di un coraggio sconvolgente, secondo solo alla sua sensibilità; una persona che ha scelto davvero di vivere per gli altri e che non si pone mai come chi ha qualcosa da insegnare, ma come chi ha qualcosa da dire e da apprendere. 
Uscii da quel bar consapevole di aver conosciuto una persona straordinaria, un vero e proprio esempio per me e per tutti i ragazzi della mia generazione. 
Passò del tempo prima che io e Vittorio ci rincontrassimo di nuovo, ma un anno dopo quell’incontro, sconvolto da un dolore che di recente mi aveva colpito, trovai un messaggio nella mia casella di posta elettronica. Una frase di quella lettera mi colpì più di tutto il resto: 
«Riconoscendo nelle nostre quotidiane gesta che i nostri padri e le nostre madri ci hanno insegnato sin da piccoli, così agendo resteranno al nostro fianco per sempre, sinché anche noi cambieremo meta e dimensione, sperando di aver avuto il tempo a nostra volta, di lasciare l'eredità del nostro meglio a coloro che con noi hanno convissuto parte del cammino. Empaticamente tuo,
Vittorio.»
La sua vicinanza, così discreta eppure così forte, mi lasciò una sensazione nuova nell’anima. Quasi come se le distanze spazio-temporali che ci avevano separato, in realtà non fossero mai esistite e facessimo parte di un unico viaggio. 
Un viaggio per me solo all’inizio, per lui già cominciato da tempo. 
Un viaggio che avrei poi condiviso e continuato con tutte le persone che con me hanno creato ¡NO MÁS!, e che certamente mi permetterà di incontrarne di nuove, legate a me dalla stessa direzione se non dallo stesso punto di partenza. 
Questo è Vittorio. Una persona che, se potesse farlo, incontrerebbe ognuno di quelli che leggono il suo blog per spiegare, confrontarsi, portare a voce quel messaggio di pace che da anni lo vede impegnato in tutto il mondo, nonostante solo ora le sue parole abbiano trovato l’enorme eco che meritano. 
Oggi, 4 febbraio, è il suo compleanno. 
Tanti auguri Vittorio. Che la tua voce continui a scuotere le anime di chi si ostina a ignorare il pianto dietro i vetri, cercando di convincersi che basti chiudere le finestre per dimenticarsi di chi muore.» 

Maria Elena Delia

Jeff Halper

Direttore del Comitato Israeliano contro le Demolizioni di Case palestinesi, arrivò con Vittorio a Gaza via mare il 23 agosto 2008
«Vik era quello che chiamiamo un “testimone”, qualcuno che fisicamente
si mette dalla parte degli oppressi e condivide con loro trionfi,
tragedie, sofferenze e speranze. Eppure era uno che attraverso l’azione
sperava di influenzare dei veri cambiamenti. Lui, come Juliano,
Rachel e molti altri che si sono sacrificati per la pace e la giustizia
in Palestina e in tutto il mondo, lasciano un grande vuoto nei nostri
cuori, nelle nostre vite e nella nostra lotta.
Mi mancherai, ragazzo mio. Ma ogni volta che mi sento stanco o
scoraggiato, ti sentirò sollevarmi su in alto e sopra la tua testa e, col
tuo enorme sorriso e la tua risata, minacciare di gettarmi fuori bordo
se solo esito a lasciarmi coinvolgere nella lotta. Tu eri e sei la forza
terrena della lotta contro l’ingiustizia. Ci solleverai sempre e ci ispirerai.
Come i pescatori palestinesi che amavi tanto, noi e tutti gli altri
che lottano per le fondamenta della vita in tutto il mondo ci impegneremo
per realizzare la tua visione.
Ciao, amico.» 

Don Walter Fiocchi

Alberto Arce

Reporter e film-maker spagnolo a Gaza durante “Piombo Fuso”
«Egidia,
non ci conosciamo, ma è come se ci conoscessimo. Io ho diviso
con tuo figlio Vik tante notti e tanti giorni sulle ambulanze di Gaza.
Lo ammiravo mentre scriveva il suo libro Restiamo umani. Ricordo
ogni notte, ogni conversazione, ogni abbraccio. Ricordo soprattutto
il primo giorno e la prima volta che ho parlato con lui, a
Malta, bevendo un whisky insieme. Trascorremmo una sera e una
notte parlando di come il nostro essere lì ricordasse ed emulasse coloro
che lottarono nelle Brigate Internazionali durante la Guerra di
Spagna. Parlavamo di Orwell, dei combattenti delle Brigate Internazionali,
dei partigiani in Italia. Parlavamo della nostra storia.
Del nostro desiderio di recuperare la storia dei nostri nonni. Ricordo
bene Vittorio il giorno in cui toccammo terra a Gaza, ricevendo
centinaia di abbracci. Ricordo Vittorio capace di irrompere in una
scuola con centinaia di bambini spaventati dalle bombe e trovare il
modo per farli ridere, attorno a lui, uniti, vicini alle sue gambe. Le
sue braccia forti sollevavano i bambini per fargli il solletico, oppure
i morti e i feriti da mettere sulle ambulanze. Ricordo la sua libertà,
la sua impassibilità e la sua forza mentre dettava i suoi articoli
al telefono. Il sangue freddo che riusciva a mantenere sempre
anche quando noi lo perdevamo durante le ore della giornata. E se
qualche volta ha perso il suo sangue freddo, noi non siamo mai riuscito
a vederlo. Ricordo i nostri saluti, quando ripartimmo. Ricordo 
quando ci incontrammo nuovamente a Firenze, il giorno in cui
venne proiettato il documentario in un teatro. Cenammo, passeggiammo
quasi tutta la notte per le strade deserte di Firenze, ricordandoci
a vicenda perché era giusto e necessario proseguire il nostro
lavoro. Egidia, leggo spesso il libro di Vittorio a mia figlia Selma,
a cui abbiamo dato questo nome in memoria di un bambina
che salvammo a Jabalia e perché è nata subito dopo la fine della
guerra, affinché sappia chi era Vittorio e perché lottava. Attraverso
queste letture, Vittorio sarà una parte fondamentale nell’educazione
di mia figlia. L’esempio di tuo figlio sarà un esempio per mia figlia.
È l’omaggio più piccolo che posso fare al mio fratello Vik. Ti
mando un abbraccio forte. Ci sarà un giorno in cui potremo conoscerci.
Ci sarà un giorno in cui potrò venire a Bulciago per darti un
abbraccio di persona.»

Fiorella Mannoia

Don Luigi Ciotti

Fondatore del Gruppo Abele e presidente dell'Associazione Libera
«Con la sua sete di giustizia, Vik è diventato per tanti, soprattutto
giovani, un punto di riferimento, un amico con cui confidarsi nell’intimo
della coscienza, a cui chiedere consiglio quando i dubbi e le
paure vengono a insidiare le speranze. E sono certo che, da dove si
trova, è felice nel riconoscere la propria vita travasata in così tante vite.
Ha vissuto con piena, dilagante umanità, Vik, lui che ci chiedeva di “restare umani”.»

Don Gallo con Egidia Beretta

Un profugo palestinese

«Ciao Vittorio, 
il ragazzino che tieni per mano
si chiama Handala, in arabo è il nome di una pianta
molto amara, e questo ragazzino è diventato il 
simbolo del profugo palestinese. Visto sempre di
spalle, povero, a piedi nudi, ha indumenti
rattoppati.
Non mostra la faccia, cupa e triste, e non vuole
crescere finchè non torna in Palestina.
La sua testa è a forma di sole e ad ogni alba grida
al mondo l'ingiustizia subita.
Tu, Vittorio, portando Handala per mano, avevi
coltivato in lui la speranza di proseguire nel 
sentiero della libertà.
Che dire, stavate bene insieme. Gli mancheranno la
tua voce, le tue grida, la tua rabbia, il tuo
megafono nei campi coi contadini. Gli mancheranno
soprattutto la tua umanità senza confini, senza
bandiere o nazionalità. Senza retorica. Handala
ammirava in te la semplicità, l'audacia e il
coraggio. Hai dato la tua vita per la difesa dei
deboli. 
Handala, perciò, ti stimava e ti ringrazia.
Non una sola lacrima. Handala ti ricorda con una
sorriso raggiante come il sole, il sorriso di chi ama
ha imparato da te il senso dell'umanità e
solidarietà.
Ciao Vittorio, Handala ti è debitore.»

Moni Ovadia

Faiza Ahmed Alì

Comunità Palestinese della Puglia
«Un bel giorno, diversi anni fa, riuscì a entrare un italiano nella
Striscia di Gaza. Appena lo si guardava non si poteva non provare
FIDUCIA, SPERANZA. Non era un attivista qualunque, non era
l’eroe, non era il sensibile in fase di ricerca e basta, ERA L’ATTIVISTA,
FORTE, SENSIBILE, TENACE, CORAGGIOSO, che
non temeva Israele ma anzi, metteva paura ad Israele. In pochi anni
questo attivista, insieme al Free Gaza Movement, alla Freedom
Flotilla, hanno reso nota la situazione del popolo palestinese molto
di più di quanto si fosse fatto in anni e anni di chiacchiere e giornali,
non era solo una questione di impegno ma di diversi, troppi fattori
messi insieme. Era la costanza, il carisma, la concretezza, il modo
di porsi, la dote innata alla comunicazione, all’arrivare a spaccare
qualsiasi muro. Se ci fosse un grafico in grado di dimostrare la crescita
del livello di speranza palestinese in quegli anni, negli anni in
cui quell’uomo decise di rimanere insieme a pochi altri internazionali
in condizioni disumane in questa striscia di terra e farne la sua
casa, il grafico mostrerebbe un picco che uscirebbe fuori dai contorni.
Nonostante la distruzione di Piombo fuso, nonostante le ferite a
morte nei cuori, nonostante la disperazione, ci si svegliava con un
desiderio assurdo di confrontarsi con le iniziative, i pensieri, i sogni
di questo uomo che trascinava un popolo intero, che liberava dalla
rassegnazione un popolo intero. Non esistevano più nemici esterni
come Israele, ed interni come Hamas e Fatah che potessero impedire
ai giovani e alle giovani palestinesi di sognare. L’Utopia era approdata
a Gaza, l’Utopia aveva contagiato ogni cuore e non come
quei sogni che dimorano per qualche ora o qualche giorno l’anima,
no! Quell’Utopia era così forte da convincerci che il mondo che avevamo
dentro, i sogni che avevamo dentro fossero il mondo reale e
che ciò che era fuori, la guerra, i soldati, il razzismo, i diritti violati,
fossero un’alterazione della realtà che con la nostra determinazione
potevano essere abbattuti.»

Egidia Beretta

Don Giorgio De Capitani

«Cinque anni fa, esattamente il 15 aprile 2011, a Gaza veniva barbaramente ucciso Vittorio Arrigoni, giovane bulciaghese, impegnato come volontario a difendere i diritti dei più oppressi. 
Ricordarlo è un dovere, ma come?
Le parole oramai sembrano sprecate, quasi annoiano tanto sono ripetitive e talora formali.
Ma la memoria del cuore è un’altra cosa: preferisce fare a meno di parole inutili, lasciando parlare invece i sentimenti profondi, che riemergono ogniqualvolta il nome di Vittorio viene pronunciato.
Lasciar parlare i sentimenti non è poi così difficile, se il cuore è sincero e c’è profonda empatia, ovvero quella compartecipazione interiore che tocca la realtà dello spirito.
Forse, si sta abusando delle parole con cui Vittorio, quasi una firma, concludeva i suoi scritti: “RESTIAMO UMANI”. Gli slogan possono anche servire, ma possono anche essere strumentalizzati e strumentalizzabili, a piacere. 
“Restiamo Umani”: che cosa significa? Anzitutto, ci tengo a precisare che l’aggettivo “Umani” è scritto con la U maiuscola, e questo già fa capire quanto Vittorio pensasse a qualcosa di elevato o, meglio, di così profondo, da scavare nell’animo umano.
Qui non è una questione di credere o non credere in un certo dio, ma in quell’Armonia spirituale, questo sì, dove non ci sono barriere o classificazioni o etichette o ideologie o razze o credenze religiose, perché il Tutto è Uno, e l’Uno è il Tutto, senza frammentazioni.
Solo nell’”essere Umani” ci si sente fratelli o, meglio, si “è” fratelli, anche se ci separiamo, ci odiamo e ci scanniamo. Qui sta il vero dramma dell’Umanità: un dramma che diventa un crimine, quando individui segregati diventano folle sterminate o anche solo un piccolo popolo che vorrebbe una propria terra, con la stessa dignità di chi è riuscito a ottenere diritti umani, magari con la forza.
Parliamo tanto di pace, e in questa parola ci mettiamo di tutto: quasi quasi è l’unica in grado di affratellare carnefici e vittime, guerrafondai e pacifisti di ogni risma. Ognuno ne dà un significato completamente diverso, ma ciò che importa è che si tratta di una parola che va bene per tutte le scarpe.
Ma la pace che cos’è, se non quell’Armonia interiore che ci unisce come esseri Umani? Pace non è solo un pezzo di terra conquistato col sangue, ma sentirci o, meglio, essere parti di un Tutto. Non si tratta, allora, di qualcosa solo di nostro: dire nostro richiama già il possesso, e il possesso rompe il Tutto in frammenti di un egoismo irrefrenabile. Nessuno si accontenta di ciò che ha, poco o tanto che sia. L’avere è qualcosa che separa: non solo ciò che si ha, ma anche ciò che si desidera. Sui desideri di possesso bisognerebbe aprire una lunga parentesi. Qui siamo tutti coinvolti, come politici, sindacalisti ed educatori. Il desiderio del possesso genera forse più stress e fa più male allo spirito del possesso reale. Educare alla essenzialità è più facile con i ricchi che con i poveri, non perché i poveri non hanno magari neppure l’essenziale per vivere, ma perché devono già capire che ogni loro conquista non deve andare oltre l’eccesso, quell’eccesso che crea egoismo e individualismo. Ultimamente ho fatto una scoperta: a caratteri cubitali sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, c’era scritto «Conosci te stesso», ma anche l’invito alla moderazione, espresso nel motto: «nulla di eccessivo».  
Che significa, allora, “Restiamo Umani”?
Non lo chiedo a Vittorio Arrigoni, ma a me stesso, a ogni essere umano che, per diventare Umano, deve compiere un lungo cammino in profondità. Più scendo nella interiorità, più trasformo i diritti in doveri. Sì, perché a “restare Umani” è un dovere, e non un diritto a se stante: un dovere fondato sulla stessa realtà costitutiva del nostro essere. Da qui, dal nostro “dovere” di esseri umani nascono i diritti ad avere un pezzo di terra, la casa, la salute, il lavoro, la cultura, la libertà religiosa, ecc.
“Restiamo Umani” è un dovere di tutti, perché ciascuno possa avere il diritto ad essere Umano.
Non interessa tanto sapere quale fosse per Vittorio il senso delle sue parole. Importa a noi, oggi, leggere queste parole che ci ha lasciato in eredità nel loro significato più profondo, anche perché, questo è certo, Vittorio ne ha fatto la propria testimonianza di vita. Come si può testimoniare uno slogan solo come slogan? Come si può essere pronti a morire solo per uno slogan?
E allora diciamolo chiaramente: “Restiamo Umani”, se per Vittorio era l’invito pressante per tornare in quel fondo di Umanità dove poter star bene tutti nel senso più reale di un ben-essere universale, per noi che lo rimpiangiamo e lo ricordiamo non può essere solo uno slogan da mettere su magliette o un adesivo, ma un invito-impegno per non far cadere nel vuoto chi ha dato il proprio sangue, non per caso o in circostanze misteriose, ma con la consapevolezza che ogni giorno poteva essere il gesto supremo oblativo.» 

Gaza, 16 aprile 2016

Lorenzo Martello

Dal Senegal - Aprile 2023
Scrivo questo testo, per testimoniare come l’esempio di vita di Vittorio
Arrigoni abbia rafforzato in me certe radicali scelte esistenziali.
Prendetela perciò come une testimonianza che è partita dall’esempio di altri
per trovare la forza per farsi autentica esperienza personale: è vero! Fare del
bene apporta amore nella propria vita e in quella degli altri; ed inoltre una
felicità che non sia condivisa, comunitaria e “politica”, non è felicità, ma è solo
piacere personale e perciò fine a se stesso, chiuso e murato dentro, senza
neanche una finestra per scorgere la speranza in cielo, e le stelle della felicità
altrui. Questo mi ha insegnato Vittorio.
In Italia mi sono occupato di insegnamento per vari anni. Ho cercato per
quanto possibile di insegnare agli alunni non solo le mie materie di indirizzo,
ma anche un certo modo di porsi nei confronti della vita, dove l’ascolto e
l’attenzione all’altro fossero realtà imprescindibili, dove la realtà quotidiana,
con tutta la sua ricchezza e varietà, fosse più importante di tante teorie
astratte e lontane dalla vita di tutti i giorni. Ma non mi bastava, sentivo troppi
compromessi posticci, troppe costrizioni e dimensioni alienanti, soprattutto
nel rapporto coi colleghi e con la burocrazia scolastica.
Ho deciso di prendermi un periodo sabbatico allora, per aprirmi ad esperienza
più dirette ed essenziali.
Non fare carriera, ma aiutare chi una carriera non la farà mai perché privo di
possibilità e risorse; sentire che tutti i miei diritti sono privilegi in troppe parti
del mondo, e allora scendere dal piedistallo crepuscolare dell’ego e mettersi al

servizio di chi questi diritti li sogna nelle notti più buie, in segreto, per arrivare
insieme ad immaginare l’alba di una nuova umanità che arriverà a compiersi. E
ne sono convinto.
Ora mi trovo nella zona più a sud del Senegal, in Casamance, e là, in un
villaggio al confine con la Guinea-Bissau, delle suore cattoliche mi hanno
accolto nel loro orfanotrofio con 36 bambini. Ed è un’esperienza ricchissima
umanamente parlando, carica di candore e dolore. E nell’essere circondato dai
bimbi dell’orfanotrofio, letteralmente (scrivo dal balconcino che dà sul cortile,
al primo piano, e sono riempito dalle urla piene di enfasi per i giochi fatti in
cortile da molti di loro) non posso che usare questi due termini: candore e
dolore. Candore per l’innocenza straordinaria di tutti loro, per il loro essere
esagerati e bellissimi in ciò, per il loro donarsi e per le loro semplici richieste;
dolore per la mancanza di mezzi, per le loro malattie (tanti pidocchi, vermi e
dermatiti), per la completa mancanza di una dimensione affettiva e di ascolto
attorno a me, da parte delle suore e degli altri adulti che hanno con loro a che
fare.
L’esempio di Vittorio è stata una stella per questa scelta: il suo restare accanto
agli ultimi e dare loro una voce, dare loro la possibilità di poter arrivare al
cuore del più vasto numero di persone, raccontando davvero ciò che accadeva,
a partire dal basso, con gli occhi pieni di polvere e di tragedia, ma sempre
aperti per donare, per sognare, per capire meglio. In Palestina ed ovunque.
Troppo poco si conosce del resto del mondo, ed è fondamentale invece
valorizzare quelle esperienze che consentono una conoscenza reciproca, a
partire dalle piccole realtà quotidiane; quelle che passano sotto silenzio perché
così “banali”, sono dettagli che consentono ad un occhio attento di “leggere” i

segni dei tempi, di essere profetici. E di profeti dell’umano abbiamo estremo
bisogno oggi.
Ora sono qua, a riempire il mio cuore di tante piccole storie, di tante piccole
vite, di realtà che sono poco note in Italia e nel resto d’Europa. Mi ritrovo ad
insegnare e ad essere segnato, a curare e ad essere guarito. È un’esperienza
piena di difficoltà, con pochi mezzi e tanti problemi urgenti, eppure vi è in
tutto questo una gioia straordinaria; è un periodo di trasformazione interiore
come poche volte era accaduto nella mia vita.
E mi viene da piangere, e mi si riempie il cuore di vero orrore al pensare che
tanti morti disperati nel Mediterraneo, hanno poco più dell’età di questi
orfani, che la luce di occhi così simili, così limpidi ed umani, si stiano
spegnendo. So che molti di noi sono addolorati di ciò, ma si sentono anche
impotenti. Ecco trasformate questa impotenza in altro, contrastatela,
credendo che ognuno di noi possa fare la propria piccola, ma fondamentale,
parte. Per lasciare un segno a questa vita che passa così velocemente, per
poter trovare una gioia illimpidita da tanti ultimi, che con la loro verità
bruciante ed evidente, possano scuoterci dal torpore e ritrovare l’entusiasmo
perduto, l’entusiasmo nel credere profondamente al fatto che ogni essere
umano porta in sé una scintilla di dignità infinita. E allora apriamo le finestre,
apriamo le nostre porte, lasciamoci riempire dal vento del cambiamento.
Restiamo umani allora per questi tempi strani, e profetici per i tempi che
avranno da venire.

Egidia Beretta

Intervento al concerto del 1 maggio 2016 organizzato a Taranto dal comitato Cittadini e lavoratori liberi e pensanti.

Egidia Beretta

Intervento durante la Festa della Liberazione del 25 Aprile 2017 a Monte Sole - Marzabotto